
26 Mar Le virtù del contribuente
- Le virtù del contribuente - 26 Marzo 2019
- Da più parti giungono moniti a recuperare il deficit di cultura etica che sembra caratterizzare, negli ultimi tempi, i normali comportamenti economici praticati e le idee cui ricorriamo per giustificarli a noi stessi e agli altri.
I fatti macroscopici di corruzione che investono non soltanto le élites al potere, ma anche la gente comune, e non solo in riferimento a fenomeni come la massiccia e diffusa evasione fiscale, o l’omertà a difesa delle organizzazioni di stampo mafioso, o lo scandalo del calcio, hanno fatto ritenere che l’etica sia “una parola senza senso, un’anticaglia, uno scandalo, e la corruzione si trasmette dai genitori ai figli” [1]. L’epoca attuale, poi, sembra caratterizzarsi per una condivisa “incertezza di principi”, le deroghe diventano una regola e “i problemi del presente (…) cercano soluzioni la cui impronta etica appare dubbia, incerta, al limite del lecito, quando non oltre” [2]: nel crescendo dell’immoralità pubblica, trova così adeguata ospitalità e giustificazione l’immoralità privata [3].
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Molteplici le motivazioni di tale diffusa situazione di amoralità: tra le altre, vale la pena di soffermarsi su quella che è stata definita, in modo invero immaginifico, lo “spaesamento dell’etica”, in ragione della incapacità dei comportamenti “moralmente” doverosi a tradursi in precetti giuridici. Dall’instabilità dei principi etici che definivano e governavano il mondo sembra conseguire, insomma, una condizione della persona simile allo spaesamento, un’incertezza condivisa e generalizzata su quale sia il “fare” doveroso e, quindi, quello “giusto”.
E’ da chiedersi però se sia proprio inevitabile che il “dovere” non sia più capace di imporre prescrizioni al “fare”, ma solo al più di inseguirne gli effetti: dal “fare tecnico” che prescrive produttività ed efficienza senza sapere indicare una direzione e tantomeno un orizzonte di senso, e dal “fare economico” che assume il denaro come unico generatore simbolico di tutti i valori a prescindere da qualsiasi finalità” [4].
Ovvero, al di là di ogni ulteriore, seppur giustificata, preoccupazione per l’odierno “fare pratico” (e quindi, “economico”), è ancora possibile tornare a fissare le “regole del gioco”, stabilendo come e con quali principi si debbano dirigere i comportamenti economici e, pertanto, cosa scegliere tra i “fini” e i “valori” delle attività produttive ?
Nell’affrontare l’argomento, che appare sicuramente troppo vasto per l’angustia dei mezzi disponibili e la visuale dello scrivente, non può prescindersi dall’evidenziare il campo dell’indagine prescelto: quello delle regole giuridiche dell’economia, la quale richiama concetti, quali quelli di benessere, di arricchimento, di affari e di denaro, inevitabilmente associati a sensazioni molto poco “etiche”.
Già dai tempi di Aristotele, invero, dell’economia era stata data una valenza lontana dalla morale: definita in senso spregiativo “crematistica”, e cioè come la capacità di arricchire producendo beni utili all’esistenza, nella quale il fisiologico rapporto di scambio “merce – denaro – merce” si trasformava nell’immorale rapporto “denaro – merce – denaro”, finalizzato non al sostentamento dell’uomo, ma all’accumulazione del denaro in se [5].
L’economia pare dunque naturalmente connotata di una certa dose di immoralità, giacché, per dirla con uno dei padri della scienza economica moderna, “non è certo alla benevolenza del panettiere che si deve il nostro pranzo”.
Gli economisti classici [6] affermavano quindi che negli affari l’uomo non può essere del tutto altruista, dovendo previamente considerare se dall’attività svolta possa conseguirsi un guadagno o meno: l’uomo “economico”, così, operando in un clima di per sé già contaminato, sarebbe quasi costretto a destreggiarsi, riducendo la propria azione non tanto nella scelta tra azioni etiche e azioni non etiche, quanto a un ibrido indistinto delle stesse [7].
Va poi aggiunto che le conseguenze di azioni economiche non hanno effetti solo nello specifico contesto di riferimento, ma interessano un’area sempre più vasta: sicché, identificare il “vero” colpevole di un’azione economica non etica diventa quanto mai arduo, finendo col proporsi spesso il commodus discessus della c.d. “irresponsabilità organizzata” [8].
Il binomio “etica-economia” si accresce quindi di un’ulteriore specificazione: quella della “responsabilità”, la qualcosa implica necessariamente delle opzioni ideologiche, e quindi si finisce per parlare di politica.
Non volendo però addentrarci su riflessioni che esulano dalla presente nota, è sufficiente osservare che il rapporto “etica-economia”, come d’altronde ogni altro rapporto in cui uno dei termini sia “l’etica tout court”, presenti problematiche irrisolte, poiché dietro a tutto c’è l’uomo, soggetto d’affari o politico, con tutte le sue straordinarie qualità (e non).
Una riflessione però sembra possibile proporre: il rapporto tra “virtù” e “ricchezza” non è incompatibile, giacché non è affatto vero che “o l’alveare è prospero ma vizioso, o l’alveare è virtuoso ma povero”.
Questo perché, a sommesso avviso di chi scrive, non è nei “fini” che l’economia può (e deve) ancorarsi a istanze etiche, ma essenzialmente nei “mezzi”, perché solo da azioni intraprese consapevolmente può garantirsi una vera dignità “umana” all’agire economico.
Una riflessione sull’etica economica, quindi, non serve tanto a ribadire prescrizioni, o a esortare, ovvero a mettere in guardia da questa sorta di scivolamento ineluttabile dell’impresa matura nelle pratiche di “illegalità” di molti Competitors non solo con gli occhi a mandorla, quanto piuttosto a cominciare a rimuovere l’indifferenza emotiva di tanti, per primi noi che ci occupiamo professionalmente degli adempimenti di legge degli operatori economici, onde non si atrofizzi “il senso di responsabilità e non si rimuova quello che almeno le religioni non hanno mai cessato di ricordare: il senso della fine, che difficilmente sarà evitabile nell’indifferenza generalizzata e nell’interiorizzazione di quel sentimento nefasto che è l’ineluttabilità” [9].
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- Con quali mezzi si potrebbe quindi ottenere uno sviluppo economico seguendo ed obbedendo a dei valori etici?
Una delle risposte più soddisfacenti a tale domanda rimanda al concetto di “sviluppo sostenibile”, che vuol dire “soddisfare i bisogni dell’attuale generazione, senza compromettere la capacità di quelle future di rispondere alle loro“.
Costituisce un imperativo, invero, per l’imprenditore, quale componente primario dell’economia concreta, rispettare le regole di sostenibilità che devono disciplinare la dimensione “dello sviluppo” e “dell’equità“.
La qualcosa comporta un’azione congiunta almeno su tre aree: quella economica, quella ambientale e quella sociale.
La dimensione economica dello sviluppo riguarda così la capacità di generare profitto e lavoro: comprende tutte le scelte societarie in grado non solo di aumentare il valore dell’impresa, ma di garantirne la continuità.
La dimensione ambientale dello sviluppo attiene, invece, alla conservazione della qualità e alla riproducibilità delle risorse naturali nell’ambiente in cui si opera. Significa, così, adeguare la produzione al “vincolo” della riduzione al minimo degli impatti ambientali, sia diretti che indiretti.
Infine, la dimensione sociale dello sviluppo concerne la possibilità di garantire condizioni di benessere e di crescita equamente distribuite, cercando di contemperare le esigenze dei diversi interlocutori sociali nel rispetto di comuni valori condivisi.
Ciò detto, il livello della riflessione proposta resta però molto teorico: siamo sempre nell’ambito di un generico “dover essere” (quello cioè dell’etica pura), che, rispetto ai fallimenti di grande aziende ai bond truffaldini, ai traffici finanziari degli intermediari creditizi, alla tuttora massiccia evasione fiscale che oggi fa indignare anche coloro che l’hanno giustificata mercé “condoni” e “scudi fiscali” vari, sembra quasi appartenere al “mondo dell’Iperuranio” [10].
Come proporre dunque una riflessione non meramente accademica sull’etica nell’impresa, tenendo conto che nei flussi di attività di un’azienda confluiscono e si contrappongono interessi di diverse parti (i dipendenti, i soci, i fornitori, i clienti, le banche, i competitors, i residenti nel luogo di produzione, perfino l’Erario, ecc.), che si caratterizzano per una propria specificità e auto-refenzialità, con diversi gradi di “urgenza” e di fini ?
D’altro canto, proprio nell’impresa si attua funzionalmente quella divaricazione tra bene individuale e bene sociale che conduce al nascere di comportamenti opportunistici da parte del soggetto economico, non riducibile quindi al solo dilemma “rispettare le regole e impoverirsi, ovvero non rispettarle e conservare l’impresa”, ma probabilmente alla ben più complessa antinomia “libertà – autorità – giustizia sociale”, che costituisce da sempre il problema mai compiutamente risolto della storia dell’umanità [11].
Se il bene sociale non coincide con il bene individuale del singolo, come può l’impresa, che come istituzione si basa sugli individui prima che sulle risorse materiali, perseguire i propri fini?
Una proponibile risposta può essere quella di introdurre in azienda un nuovo principio: quello di “bene comune” che non rappresenta la semplice somma dei beni individuali, ovvero un “bene collettivo”.
Soddisfare il bene comune significa, invero, porre al centro la “continuità dell’impresa”, premiando sicuramente le “giuste” aspettative di remunerazione di chi in essa opera e quindi dello sviluppo del “capitale sociale”, ma agendo per mezzo della cooperazione e della capacità di inserimento degli altri soggetti coinvolti nella rete di relazioni dell’attività svolta.
E’ chiaro che così “l’azienda sana” è anche quella “virtuosa” (quella cioè che in primo luogo “rispetta le regole”), là ove di contro “l’azienda non virtuosa” non è “un’azienda sana”: d’altro canto, sempre più spesso una “due diligence” aziendale si spinge a valutare, oltre che i rischi tributari latenti in conseguenza dell’adeguamento o meno alle leggi fiscali, anche l’efficienza organizzativa dell’impresa per prevenire eventuali “abusi” perpetrati dai responsabili apicali dell’impresa stessa [12], ovvero la rispondenza a principi etici dell’organizzazione produttiva e dei beni realizzati [13].
Da un concetto di responsabilità “economica”, dunque, occorre passare a quello più ampio di responsabilità “sociale”.
Muta l’oggetto della responsabilità dell’impresa: se prima era limitato alla massimizzazione delle aspettative dei proprietari, ora si deve parlare di una responsabilità allargata alla soddisfazione delle attese di tutti i possibili interlocutori sociali. [14]
Peraltro, a oggi non esiste un obbligo di legge di condurre l’impresa secondo i principi etici della “responsabilità sociale”: tale responsabilità in azienda presuppone un’adesione volontaria dell’imprenditore, la qualcosa implica una lunga digressione sulla “cultura di impresa” degli operatori economici.
Su tale carattere spontaneo dell’adesione, ribadito anche a livello comunitario, si sono però espressi pareri difformi, poiché alcuni ritengono che la responsabilità sociale debba risultare da un obbligo di legge per essere effettivamente adottata. Altri invece ribadiscono che imporre una condotta morale sia teoricamente inaccettabile e praticamente inattuabile, data la diversità del tessuto aziendale.
Ciò che però preme qui rilevare è che la responsabilità sociale dell’impresa deve essere sentita come un traguardo interno, “morale” nel senso più autentico del termine, e non come un “bell’abito da esporre nelle buone occasioni“: è impensabile sviluppare una responsabilità sociale all’esterno senza che ci sia una capacità consolidata di svolgere buone pratiche aziendali all’interno dell’impresa.
L’impresa perciò può essere responsabile all’esterno solo se lo sia all’interno e questo significa fare della responsabilità sociale un “valore” per l’impresa: inserendo la responsabilità sociale come valore imprescindibile della sua attività, l’imprenditore mette “l’etica in etichetta”, in modo tale che tutti i livelli aziendali siano coinvolti nel suo rispetto e che i terzi siano a conoscenza della politica seguita.
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- Nel V secolo avanti Cristo comparve nelle riflessioni dei pensatori greci una particolare virtù, di cui poi si sono perse le tracce: il suo nome è parresia, e significava “dire la verità”.
In un bel libro di qualche anno fa [15], Remo Bodei ricorda che era stato Michel Foucault, in una serie di conferenze all’Università californiana di Berkeley nel 1983, a darne notizia, evidenziando “il problema del sorgere dell’attitudine critica nelle filosofie dell’Occidente è quello di un’etica della verità”.
“Verità”, come noto, è la ricerca chiave della filosofia, è il problema intorno al quale ruota il pensiero filosofico occidentale dal momento in cui ha abbandonato la fase del mito e della religione. Anche la religione, però, afferma di dire la verità [16], ma il suo fondamento consiste nell’autorità di chi la enuncia, là ove la filosofia ricerca una verità capace di stare in piedi da sola, senza il ricorso ad alcuna autorità esterna [17].
Ma nei confronti della “verità”, tra gli altri, sorge un problema: quello di dire la verità, dove non si tratti di mera forma del discorso, quanto piuttosto quello del “diritto” o del “dovere” di dirla.
Varie le questioni: chi è in grado di dire la verità ? Quali requisiti deve avere chi ne afferma l’abilitazione ? Su quali argomenti è necessario dire la verità ? Quali sono gli effetti positivi o negativi dell’affermazione della verità ? Che rapporto c’è tra dire la verità e l’esercizio del potere, specie se tale esercizio sia “abusivo” o “dispotico” ? Quale l’importanza per la società di avere individui capaci di dire la verità ?
La “parresia”, quale diritto/dovere di dire la verità, compare la prima volta in Euripide; la parola ricorre poi fino al V secolo dopo Cristo e poi se ne perdono le tracce [18].
L’art. 10 dello Statuto del Contribuente [19] stabilisce che “i rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria sono improntati al principio di collaborazione e buona fede”.
Cosa in concreto voglia significare “principio di collaborazione e buona fede” risulta dalla ormai copiosa casistica e dalle norme recate nel medesimo Statuto [20]: allo scrivente piace pensare che lo status del “cittadino – contribuente”, come d’altronde altri status giuridici particolari [21], comporti tra l’altro un “dovere di dire la verità”, perfino penalmente sanzionato là ove il semplice “mendacio” sul possesso di redditi, o sugli scambi di beni e servizi conduca a un’evasione fiscale “sensibile” [22].
Il contesto dei rapporti tra Erario e contribuenti si arricchisce pertanto di un’ulteriore connotazione: quello della “verità” penalmente sanzionata. Ma si può rischiare la sanzione penale perché non si dice la “verità” al Fisco [23]?
La risposta è certamente positiva, ma solo perché lo prevede la legge “positiva” (e personalmente, attesa l’esperienza di 40 anni di tributarista, esprimerei più di una perplessità).
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- Vi è un limite intrinseco nel concetto di legalità, qualcosa che la rende “naturalmente” imperfetta, inadeguata rispetto alla realtà dell’uomo.
L’illusione di poter rintracciare norme universalmente valide, capaci di regolare ogni aspetto della vita sociale, non può che cedere il passo dinanzi alla complessità dell’esperienza e, ancor di più, di fronte all’evidenza del difficile collegamento tra la legge positiva e la legge della coscienza.
E’ proprio da questo contrasto che trae vigore lo spirito di ribellione, il desiderio e il bisogno di colmare con le proprie forze le lacune che ogni dimensione legislativa sembra recare.
Gli atti di ribellione fanno parte dell’esistenza di tutti: e in effetti, gli atti di ribellione che ognuno può compiere dipendono da caratteristiche spesso del tutto soggettive, dall’adesione a valori e ideali assolutamente personali (perciò stessi non generalizzabili e quindi “relativi”).
La disubbidienza alla legge positiva, in certe circostanze, sembra rappresentare perfino un “valore eroico”: basti pensare a Tommaso Moro, santo, laico ed utopista, che seppe dire “no” al suo re, amico e di cui era il fidato Lord Cancelliere, o ai tanti che disubbidirono (e disubbidiscono tuttora) alle leggi dei tanti regimi dittatoriali del XX e XXI secolo.
Per il proprio cammino personale, tutti dovrebbero essere disposti, qualora le circostanze lo rendano necessario, a ribellarsi, a dire “no”.
La libertà, d’altronde, è un concetto ambiguo per sua natura, giacché se da una parte richiama l’idea di un’assenza di vincoli e di divieti, dall’altra implica la possibilità di perseguire i propri ideali, progetti e desideri fino al momento di trasformarli in realtà, di renderli concreti.
La possibilità per l’individuo di autodeterminarsi, però, si accompagna alla necessità di accettarne il presupposto ineludibile: la responsabilità delle proprie azioni e il peso delle relative conseguenze.
La giustizia positiva si basa sui diritti/doveri conseguenti allo sforzo razionale dell’uomo di costruire un consorzio sociale; di conseguenza, violare questi diritti/doveri significa mettere in discussione l’intero sistema di cui si fa parte.
Il diritto non scritto è qualcosa di più profondo, qualcosa che rimanda a una sfera di valori che sintetizzano le emozioni e le azioni in atti semplici e fondamentali.
Due mondi contrapposti, dunque, tra i quali è arduo trovare un punto d’incontro.
Né basta: la legge positiva, nella sua presunzione di poter inglobare in precetti universali la realtà che vuol regolare, si scontra inevitabilmente con l’imprevedibilità e la molteplicità della casistica, rivelando così la sua incapacità di proporsi e operare secondo canoni di esattezza e di perfezione cui formalmente dovrebbe ispirarsi. Ciò che in astratto può apparire logico e razionale, non sempre può adattarsi all’inevitabile varietà delle esperienze di vita, e ogni sforzo di codificare principi di giustizia non può che rivelarsi insufficiente, un’approssimazione insomma.
E quanto vane suonano le parole che spesso accompagnano i discorsi dei troppi che denunciano la mancanza negli ordinamenti positivi moderni di “certezza del diritto”: il tentativo di trovare un possibile bilanciamento tra la normalità dei casi si scontra con l’evidenza del continuo insorgere dell’eccezione che, di volta in volta, ripropone le stesse problematiche mettendo in crisi l’idea stessa che possano esistere norme giuridiche eterne o, peggio, valide ovunque.
Potrebbe dirsi che la legge nasce proprio per essere messa in discussione, per essere cambiata, giacché deve essere considerata nella sua natura provvisoria e mutevole, qualcosa che non potrà mai proporsi come sistema universale di valori.
E il vero pericolo per la legalità è proprio la cristallizzazione del suo sistema normativo, l’incapacità di evolversi e di appagare l’ansia di cambiamento dell’uomo.
La storia, del resto, non è andata avanti sempre e soltanto nel rispetto della legalità; al contrario, il progresso della civiltà è spesso scaturito dalla trasgressione, anche violenta, di regole che la coscienza sociale non riconosceva più come proprie.
Ogni legge, nasce in un determinato momento storico e riflette i valori di una specifica società. Si tratta di valori che cambiano continuamente e, di conseguenza, se un ordinamento giuridico si dimostra incapace di mettersi in discussione, rischia di diventare una realtà completamente avulsa da contesto sociale che si propone di regolare.
Ma se la legge è imperfetta per sua natura, ciò non significa che si debba avallare l’idea di un improbabile ritorno allo “stato di natura”.
Nessuna società può fare a meno di un suo sistema normativo perché la legge, in fondo, è il fondamento stesso di ogni gruppo sociale organizzato.
Ma fino a che punto è giusto limitare la libertà del singolo nell’interesse della società? Fino a che punto, a esempio, può spingersi la pressione fiscale sui beni e/o sulle attività delle persone ?
Al di là dall’effettiva necessità sociale, oltre il limite di ciò che attiene alle esigenze di una civile convivenza, ogni imposizione, e a maggior ragione quella tributaria, rischia di diventare un atto di prevaricazione.
La rinuncia alla propria libertà, dunque, può trovare una sola giustificazione, quella di tutelare interessi contrapposti e sempre che tutto questo avvenga a condizione di reciprocità.
L’uomo ha bisogno di “andare oltre”, di sognare ciò che non è ancora compiuto, di muoversi nella direzione di un progressivo miglioramento delle sue attese: tutto ciò che è stasi, immobilità, non può che generare disagio, e quando un sistema normativo si dimostra incapace di cogliere i segnali di questo malessere, quando le leggi statali sono troppo distanti dalle leggi del cuore e dalla naturale variabilità dei sentimenti collettivi, non rimane altra strada, per una vera giustizia, che quella della “trasgressione”.
A certe condizioni, pertanto, la “disubbidienza” è un diritto, anche se come di tutti i diritti non se ne può fare “abuso”.
Ma questo è un altro tema, sul quale torneremo presto.
[1] G. Bocca, L’etica è morta, in “La Repubblica”, 23 settembre 1996
[2] U. Galimberti, Questioni etiche, nuovi comportamenti. Come affrontare l’indifferenza, in “La Repubblica”, 8 agosto 2006.
[3] D’altro canto, “l’evasione fiscale” come “autodifesa del cittadino” è stata ribadita anche di recente da “supremi reggitori” della cosa pubblica.
[4] U. Galimberti, ibidem, cit.
[5] Che l’accumulazione del denaro possa rappresentare un mala in se è avvertibile anche in molti brani evangelici: a es. Mt. 19,33; Lc. 12, 33.
[6] Adam Smith.
[7] Gli echi di tale comportamento sono, invero, attualissimi: come, ad esempio, comportarsi di fronte a imprenditori concorrenti (ovvero, nell’economia “mondializzata”, nei confronti delle “tigri economiche asiatiche”), che pratichino diffusamente l’evasione tributaria e/o contributiva, immettendo al consumo beni “sgravati” degli oneri fiscali ? E ancora, quali i limiti qualitativi e quantitativi accettabili di “illegalità economica”, sotto quali nessuna censura morale debba scattare (la domanda è “si può rubare per un fine superiore, ovvero per una sorta di ‘legittima difesa’ nei confronti della ‘rapacità dell’Erario?”). Quanto poi della attuale ricchezza di molta parte dell’Italia c. d. “produttiva” non consegue da anni di “amnesie fiscali”, o dal lavoro “in nero”, o da politiche economiche protezionistiche simili a quelle oggi praticate dai Paesi emergenti?
[8] E’ agevole infatti constatare come, nella pratica, la “responsabilità” di azioni economiche discutibili sia sempre di altri; che per gli interpreti dei fatti economici “il contesto di riferimento” sia sempre più ampio di quello considerato; che le norme giuridiche, specie quelle tributarie, siano sempre “scritte male”, ancorché da tempi immemorabili i responsabili dei dicasteri economici siano stati illustri accademici e giuristi, ovvero studiosi dei fatti macro-economici di fama mondiale.
[9] U.Galimberti, ibidem, cit. supra.
[10] Ma invero, secondo l’accezione che accoglie lo scrivente, l’unica etica pratica validamente (e laicamente) proponibile è quello di “rispettare le regole”, giacché le regole “sbagliate” si cambiano (secondo le regole dei vari sistemi giuridici positivi) e non già si violano (o peggio, “si eludono”).
[11] Da questo punto di vista, non sembri presuntuosa l’affermazione che neppure il ricorso a istanze di tipo religioso paiono idonee a risolvere tale antinomia, là ove esse si risolvano non già a ribadire il “primato della persona”, ma solo a una “difesa dei principi”, giacché per dirla con Kant “i principi sono fatti per l’uomo e non l’uomo per i principi”.
[12] Il riferimento è in primo luogo alle disposizioni del decreto legislativo 8 giugno 2001, n, 231, che escludono la responsabilità amministrativa delle imprese che abbiano, sulla base dei codici di comportamento predisposti dalle associazioni di categoria rappresentative delle imprese di settore, adottato un modello gestionale ed organizzativo, idoneo a prevenire la commissione di taluni reati, quali, in particolare, quelli, in particolare, quelli di corruzione, di concussione, di frode e in materia di reati societari.
[13] Uno dei benefici nel tenere una condotta socialmente responsabile è il conseguimento del vantaggio competitivo e quindi la possibilità di incrementare la “reputazione” dell’impresa, intesa come “la rappresentazione collettiva delle azioni passate e delle prospettive future di un’impresa che descrive, come i detentori di risorse critiche, interpretano le proposte dell’impresa e ne giudicano la capacità di soddisfare le loro attese”. Sempre più oggi, almeno nei paesi occidentali, si afferma una tipologia di consumatore, quello “etico” o “critico” (si ricordino i casi NIKE e/o l’ostracismo ideologico alla Coca Cola), che impone alle imprese,. che vogliano mantenere una reputazione inattaccabile, condotte rigorose e trasparenti. Sicché, inserire tra le proprie finalità di impresa anche il perseguimento di obiettivi sociali e ambientali nel rispetto di tutti gli interlocutori sociali coinvolti, può tutelare e incrementare le proprie quote di mercato nel tempo.
[14] Tutti i possibili interlocutori dell’impresa sono identificati, con il termine coniato “da Edward Freeman, di “stakeholder“, che comprende coloro che hanno un interesse in gioco (at stake), attuale o potenziale nelle decisioni dell’impresa. Sono raggruppabili in due grandi categorie: coloro che influenzano direttamente le decisioni dell’impresa (proprietari, clienti, fornitori e lavoratori); coloro di cui bisogna tenere conto per diversi vincoli giuridici (ambiente, istituzioni, sindacato, associazioni consumatori e comunità locale). La soddisfazione degli stakeholder, aiuta l’impresa ad instaurare rapporti meno conflittuali e una maggiore disponibilità al dialogo creando al tempo stesso quel clima di serenità necessario per realizzare la cooperazione tra le parti.
[15] “Discorso e verità nella Grecia antica”, Donzelli, Roma 1996
[16] Anche se mirabilmente angosciata suona nella Passione di Giovanni (Gv. 18,38) la muta domanda che Ponzio Pilato rivolge a Cristo: “quid est veritas”?
[17] E’ l’epistome, che risulta dal verbo “istemi”, che vuol dire “sto”, e da “epi”, che vuol dire “su”. “Epistome” allora vuol dire “ciò che sta su”, che si impone da sé.
[18] Per U.Galimberti, si perdono le tracce anche di coloro che hanno il coraggio di dire la verità.
[19] Recato dalla Legge 27 giugno 2000, n. 212
[20] Un po’ meno, invero, in quelle successive, specie con riguardo a recenti disposizioni impositive, di cui si è improvvisamente proclamata, anche per mezzo di interpretazione c.d. “autentica”, l’efficacia retroattiva, giustificata dal “fine superiore” della lotta all’evasione fiscale.
[21] Per tutti, quello dell’imprenditore commerciale, che non solo ha l’obbligo di dire la verità sulla situazione patrimoniale e reddituale della sua impresa, ma la deve anche dire in modo “comprensibile”, secondo le regole stabilite dalla legge civile e dalle disposizioni contabili internazionali.
[22] Cfr. art. 4, D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, in tema di “dichiarazione infedele”, con le relative “soglie” di punibilità
[23] E’ certo, come ricorda V.E. Falsitta (Fiscalità etica, Bocconi, Milano 2005, p.109), “l’evasione fiscale è tra le cause principali dell’ingiustizia sociale. E ciò è vero sia quando l’omessa contribuzione si converte in consumo, quindi in migliore qualità della vita rispetto al cittadino che con quei soldi ha pagato l’erario; sia quando si converte in investimenti (per esempio, l’acquisto di una casa); sia, ancor più gravemente, quando è il presupposto di crimini economici”. Ma ciò è sufficiente per giustificare una sanzione penale per le bugie fiscali ? Il tema, all’evidenza, non è etico, ma politico: e quindi “politica” sarà la risposta (o per meglio dire, a seconda della “politica fiscale adottata” si troverà una giustificazione in un senso o nell’altro.
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