
08 Feb La storia antica di Uomini “di Toga”
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La storia antica di Uomini “di Toga”
A dicembre 2021 mi recavo in visita alla cugina ad Arezzo. Fortuna ha voluto che vi fosse l’usuale mercatino dell’antiquariato, e, mentre camminavo tra le bancarelle che mostravano qualsiasi tipo di oggetto vintage o più “vecchio”, il mio sguardo si è posato su un libro senza intestazione simile ad uno di storia che ho in casa, e per pura curiosità l’ho aperto scoprendo che si trattava di una “Consultazione dell’Avv. Adriano Mari sul ricorso interposto dal Dott. Leonardo Romanelli alla Corte Suprema di Cassazione, in Firenze” per l’accusa sollevata nei suoi confronti di alto tradimento, data della pubblicazione 1851.
Il libro non è rimasto sulla bancarella. L’ho acquistato, volevo conoscere quella storia,
e di quell’Avvocato Mari che già immaginavo in un vestito sobrio ed elegante, con la barba e baffi, come usavano gli intellettuali dell’epoca, uno sguardo serio e riflessivo ed un portamento che da solo incuteva rispetto e ammirazione. L’epoca è tra le più suggestive, il Risorgimento Italiano, il luogo che vede muoversi i nostri protagonisti è il Gran Ducato di Toscana non ancora annesso all’Italia.
Il nostro Dottor Leonardo Romanelli primo protagonista di questa “storia antica”, nasce vicino Arezzo nel gennaio del 1803. Era figlio di un perito agrario che godeva di una piccola fortuna con la quale non era sempre in grado di fornire adeguato benessere ad una famiglia composta da moglie e ben sette figli.
All’età di undici anni, il nostro giovane attore venne inviato in seminario ad Arezzo e in seguito si trasferì a Pisa per proseguire gli studi iscrivendosi alla facoltà di giurisprudenza. Potette svolgere tali studi grazie al sostegno economico derivatogli dalla Fraternità dei laici, una importante opera pia aretina che manteneva alcuni studenti meritevoli presso il Real Collegio Ferdinando di Pisa. Due anni dopo l’iscrizione al Real Collegio, Leonardo venne espulso da tutte le università toscane, a causa del suo carattere ribelle e goliardico, furono poi le suppliche del padre al Gran Duca a far riammettere il giovane agli studi universitari che terminò nel 1826. Quindi si trasferì ad Arezzo ove esercitò come procuratore senza però conseguire il titolo di avvocato, causa vicissitudini familiari, ma riuscì comunque a conquistarsi una ragguardevole fama di civilista, divenendo il moderatore degli interessi di molteplici famiglie importanti e non della zona.
Politicamente impegnato, il Dottor Leonardo Romanelli era un convinto “democratico”, concetto da interpretarsi secondo i canoni dell’epoca, e, pur simpatizzando per la causa italiana, disapprovava qualsiasi cospirazione e strategia insurrezionale. Non svolse, in quegli anni, attività politica diretta, limitandosi a preferire strategie gradualiste “ispirati ai principi dell’incivilimento ottocentesco”, e per il raggiungimento di tali obbiettivi introdusse tali concetti nell’aretina Società promotrice dell’istruzione elementare, mantenendo contatti con i moderati.
Alla luce di quanto sopra si comprende che il Romanelli non potette che accogliere con entusiasmo le prime riforme concesse nel 1847 da Leopoldo II, riguardanti nel campo della procedura penale la riforma del “metodo inquisitorio” che prevedeva la “tortura giudiziaria” (vigente all’epoca in tutti gli ordinamenti, tranne in parte l’Inghilterra), l’obbligo del giuramento e l’equiparazione della contumacia alla confessione, la negazione delle prove legali, autorizzata la concessione della libertà provvisoria e vietata la sperimentazione del testimone col carcere. Detta riforma produsse sostanzialmente l’introduzione di criteri di mitezza e gradualità: e la grande innovazione avvenne con la soppressione, per la prima volta in Europa, della pena di morte; furono abolite inoltre una serie di pene corporali di immane crudeltà, quali la marchiatura a fuoco e le mutilazioni, e sevizie come i tratti di corda; furono abolite la confisca dei beni e la morte civile come pene accessorie. Rimasero tuttavia alcune pene antiquate come la gogna, le staffilate, la frusta pubblica e la frusta sull’asino; ma in generale fu ampliato il ricorso “umanitario” a pene pecuniarie oppure al carcere, all’esilio, al confino ed all’ergastolo o i lavori forzati. Fu abolito il reato di lesa maestà divina! (nota n. 1)
Le innovazioni, benché di portata epocale non furono sufficienti a frenare la sete democratica nel Granducato di Toscana, gli animi entusiasti e infervorati da ideali patriottici produssero l’azione del Romanelli, che si adoperò per congiungere Arezzo, di tradizione granduchista, ad altre città toscane, Firenze, Livorno e Pisa più rivolte verso la modernità, nonché i municipi del territorio vicino e Perugia. Di tali incontri produttivi di una fratellanza sugellata da riti massonici, venne fatta una relazione data alle stampe, “la relazione delle feste aretine” 1847, che la guardia civile immediatamente reperì (nota n. 2).
Da questo momento la vita del Dottor Romanelli cambiò. Le sue posizioni politiche divennero sempre più radicali e vicine agli “esaltati” di parte democratica influenzate anche dal concreto “desiderio di garantire maggior spazio pubblico alla piccola e media borghesia professionale di provenienza”. Ma vi è di più: come sottolineato dall’Avv. Adriano Mari, che il Romanelli avrebbe conosciuto di lì a poco: “… La indipendenza di questa nazione, altrettanto infelice quanto grande per memoria di antica potenza e per opere di civiltà, era pure il sospiro e il sogno del Romanelli; e , se un meraviglioso concorso di circostanze al subito risvegliarsi d’Italia il sugello di un decreto di Dio, non potè l’animo dell’ardente patriotta rimanersi o indifferente o passivo all’aspetto della nuovissima insegna, che sorgeva a rappresentare una federazione invocata dai popoli e promessa ormai dai Governi e dai Principi. Dominato ed esaltato, se così vuolsi, da quest’idea generosa, accorreva il Romanelli ovunque gli sembrasse potere spendere una parola di unione e concordia a favore della guerra dell’indipendenza. Alla quale non potendo accorrere egli, uomo di toga, legato a tanti interessi della provincia, della città e della famiglia, spingeva con generoso e forte animo i figli; i due inviava ripetendo loro con spartana fierezza in quei supremi istanti gl’insegnamenti dei quali gli aveva nutriti fin dall’infanzia, ignaro che fosse per giungere si presto il dì della prova …” (tratto dal ricorso dell’avv. Adriano Mari 1851 – nota n. 3).
Le vicende storiche che si succedettero nel Granducato di Toscana videro l’istaurarsi di un Governo provvisorio con l’allontanamento di Leopoldo II. Tale Governo elesse il Romanelli Ministro di Giustizia, Grazia e Culto.
Da ministro, egli agì per tutelare la magistratura dalle pressioni della piazza e dalle invadenze governative e promosse un progetto di riforma che abolisse pene come i pubblici lavori, la gogna e l’esilio parziale.
Il Governo formatosi in quel periodo, passo ben presto a dittatura, e il Romanelli, ufficialmente ancora ministro, fu nominato commissario straordinario del governo per il compartimento di Arezzo al fine di sedare i tumulti scoppiati nell’agro aretino; essendo stato in passato procuratore nel territorio, e dunque conoscitore dell’animo del luogo, riuscì a svolgere un abile ruolo di mediazione ripristinando l’ordine.
Non ostacolò la restaurazione, ma collaborò con la Commissione municipale per favorire il ritorno del sovrano fuggito, senza invasione austriaca. Tutto ciò non gli evitò l’esilio in Umbria e poi una carcerazione preventiva destinata a durare quattro anni e segnata dal celebre processo di fronte alla Corte regia di Firenze contro i membri del governo provvisorio accusati di lesa maestà.
Durante il 1851, nel carcere delle Murate, lavorò alla stesura delle sue Memorie (Firenze 1852) che dovevano costituire la difesa politica del suo operato, di concerto con quella giuridica, combattuta dall’Avvocato Adriano Mari, fiorentino, con memorie e pareri legali dati alle stampe, e di cui una è la copia di cui ho potuto fruire ancor oggi.
Il documento dell’Avv. Mari sostiene la tesi che il Romanelli ha sempre agito in tutela dell’ordine pubblico e delle istituzioni, evitando o cercando quantomeno di attenuare i disordini di piazza e i tumulti nell’area agraria. L’Avv. Adriano Mari produsse molteplici prove documentali, nonché si avvalse di numerosi testimoni, durante il dibattimento.
Sin da subito l’Avvocato Adriano Mari si presentò alla Corte da uomo di saldi principi, introducendo l’accettazione del mandato con queste parole: “Giudicare dei fatti secondo i miei principii; esprimere francamente in qual concetto io abbia il mio cliente, quando pure dovesse restarne offesa la sua modestia – a queste condizioni accettai l’ufficio di difensore – di esse intendo valermi in piena libertà. Altra volta ebbi occasione di professare innanzi a Voi la mia fede politica: ed è sempre la stessa. Come reputo funeste al paese le tendenze e le arti del partito retrogrado, che in nome della religione e dell’ordine vorrebbe tolta ogni legale guarentigia di libertà, così funeste io reputava, e l’effetto lo ha dimostrato, le esorbitanze e le improntitudini, alle quali l’opposto ed estremo partito in nome della libertà trascorreva. Incominciando da sifatta dichiarazione, non temo di arrecare neppur lieve pregiudizio alla causa del mio rappresentato”.
Tale dichiarazione e il suo modo di condurre la causa non arrecarono alcun nocumento al Romanelli che venne assolto dal reato di lesa maestà con sentenza del luglio 1853. La Corte di Cassazione di Firenze accolse in pieno le richieste di Mari e le sue tesi difensive, Romanelli fu uno dei pochissimi assolti fra i 36 imputati.
Ciò che accadde in seguito lo lasciamo alla storia.
L’Avv. Adriano Mari aveva svolto il suo mandato rappresentando, in quell’epoca ricca di valori e avida di giustizia e libertà, un uomo con l’animo più moderato del governo democratico, e non immaginava, forse in cuor suo sperandolo, che quasi 200 anni dopo una copia di quel ricorso dato alle stampe fosse sopravvissuto al tempo, e venisse raccolto da una Avvocato donna, che diversamente da lui è inciampata in quella Toga che ne scandisce oggi il percorso lavorativo, ma con lo stesso orgoglio la indossa rincorrendo i medesimi ideali di Giustizia e Libertà.
(Nota n. 1) Estratto del Proemio e dell’articolo LI (Abolizione della pena di morte) della Legge di riforma criminale del 30 novembre 1786, n. 59:
“Pietro Leopoldo, per grazia di Dio, principe reale d’Ungheria e di Boemia, arciduca d’Austria, granduca di Toscana
[…]
Con la più grande soddisfazione del Nostro paterno cuore Abbiamo finalmente riconosciuto che la mitigazione delle pene congiunta con la più esatta vigilanza per prevenire le reazioni, e mediante la celere spedizione dei Processi, e la prontezza e sicurezza della pena dei veri Delinquenti, invece di accrescere il numero dei Delitti ha considerabilmente diminuiti i più comuni, e resi quasi inauditi gli atroci, e quindi Siamo venuti nella determinazione di non più lungamente differire la riforma della Legislazione Criminale, con la quale abolita per massima costante la pena di Morte, come non necessaria per il fine propostosi dalla Società nella punizione dei Rei, eliminato affatto l’uso della Tortura, la Confiscazione dei beni dei Delinquenti, come tendente per la massima parte al danno delle loro innocenti famiglie che non hanno complicità nel delitto, e sbandita dalla Legislazione la moltiplicazione dei delitti impropriamente detti di Lesa Maestà con raffinamento di crudeltà inventati in tempi perversi, e fissando le pene proporzionate ai Delitti, ma inevitabili nei respettivi casi, ci Siamo determinati a ordinare con la pienezza della Nostra Suprema Autorità quanto appresso.
[…]
Abbiamo visto con orrore con quanta facilità nella passata Legislazione era decretata la pena di Morte per Delitti ancora non gravi, ed avendo considerato che l’oggetto della Pena deve essere la soddisfazione al privato ed al pubblico danno, la correzione del Reo figlio anche esso della Società e dello Stato, della di cui emenda non può mai disperarsi, la sicurezza nei Rei dei più gravi ed atroci Delitti che non restino in libertà di commetterne altri, e finalmente il Pubblico esempio, che il Governo nella punizione dei Delitti, e nel servire agli oggetti, ai quali questa unicamente diretta, è tenuto sempre a valersi dei mezzi più efficaci col minor male possibile al Reo; che tale efficacia e moderazione insieme si ottiene più che con la Pena di Morte, con la Pena dei Lavori Pubblici, i quali servono di un esempio continuato, e non di un momentaneo terrore, che spesso degenera in compassione, e tolgono la possibilità di commettere nuovi Delitti, e non la possibile speranza di veder tornare alla Società un Cittadino utile e corretto; avendo altresì considerato che una ben diversa Legislazione potesse più convenire alla maggior dolcezza e docilità di costumi del presente secolo, e specialmente nel popolo Toscano, Siamo venuti nella determinazione di abolire come Abbiamo abolito con la presente Legge per sempre la Pena di Morte contro qualunque Reo, sia presente, sia contumace, ed ancorché confesso, e convinto di qualsivoglia Delitto dichiarato Capitale dalle Leggi fin qui promulgate, le quali tutte Vogliamo in questa parte cessate ed abolite.
[…]
Tale è la Nostra volontà, alla quale Comandiamo che sia data piena Esecuzione in tutto il nostro Gran-Ducato, non ostante qualunque Legge, Statuto, Ordine, o Consuetudine in contrario.
Dato in Pisa li 30. Novembre 1786.
Pietro Leopoldo
(Nota n.2) Ricerche basate su testi treccani online
(Nota n. 3) Ricorso interposto dell’Avv. Adriano Mari 1851